(Il testo non riveste carattere di ufficialità)
composta
dai signori:
·
Dott. Renato GRANATA Presidente
·
Prof. Giuliano
VASSALLI Giudice
·
Prof. Francesco GUIZZI
“
·
Prof. Cesare MIRABELLI
“
·
Prof. Fernando
SANTOSUOSSO “
·
Avv. Massimo VARI “
·
Dott. Cesare RUPERTO “
·
Prof. Gustavo ZAGREBELSKY “
·
Prof. Valerio ONIDA “
·
Prof. Carlo MEZZANOTTE
“
·
Avv. Fernanda CONTRI “
·
Prof. Guido NEPPI
MODONA “
·
Prof. Piero Alberto
CAPOTOSTI “
·
Prof. Annibale MARINI “
ha
pronunciato la seguente
nei
giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge 23
dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica),
promossi con ordinanze emesse il 22 ottobre 1997 (n. 8 ordinanze) dal Tribunale
amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, ed il 5
novembre 1997 dal Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna,
rispettivamente iscritte ai nn. 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 126 e 531 del
registro ordinanze 1998 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica
nn. 6, 10 e 29, prima serie speciale, dell’anno 1998.
Visti
gli atti di costituzione di G. D. R., del Coordinamento italiano dei medici
ospedalieri–associazione sindacale medici dirigenti (Cimo-Asmd), nonché gli
atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito
nell’udienza pubblica del 23 marzo 1999 il Giudice relatore Piero Alberto
Capotosti;
uditi
gli avv.ti Angelo Vantaggiato per .. (omissis) ..., Alberto Marconi per il
Cimo-Asmd e l’Avvocato dello Stato Francesco Guicciardi per il Presidente del
Consiglio dei ministri.
1. Il Tribunale amministrativo regionale per la
Puglia, sezione staccata di Lecce, con otto ordinanze in data 22 ottobre 1997,
emesse in altrettanti giudizi, ed il Tribunale amministrativo regionale per
l’Emilia-Romagna, prima sezione di Bologna, con ordinanza in data 5 novembre
1997, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4,
comma 3, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione
della finanza pubblica) in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione,
nonché, il Tar per l’Emilia-Romagna, anche all’art. 4 della Costituzione.
2. Le ordinanze di rimessione del Tar per la
Puglia, di contenuto sostanzialmente identico, sono state emesse nel corso dei
giudizi instaurati da medici dipendenti di Aziende sanitarie locali e di enti
ospedalieri di detta regione. I ricorrenti esercitano attività
libero-professionale extra moenia ed hanno chiesto l’accertamento del proprio
diritto a percepire la retribuzione non decurtata ai sensi della norma
impugnata, proponendo altresì domanda cautelare, accolta <<in via
meramente interinale e provvisoria e nelle more della decisione da parte della
Corte Costituzionale>>. Identico oggetto ha il giudizio innanzi al Tar
per l’Emilia-Romagna, promosso da alcuni medici in servizio presso l’Azienda
Ospedaliera di Bologna, Policlinico S. Orsola Malpighi.
3. I giudici del Tar per la Puglia premettono che
essi hanno già sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4,
comma 3, della legge n. 724 del 1994 in riferimento agli artt. 3 e 36 della
Costituzione e che la Corte, con ordinanza n. 255 del 1997, ha disposto la
restituzione degli atti, affinché ne riesaminassero la perdurante rilevanza
alla luce delle sopravvenute modificazioni del quadro normativo, indicate
nell’art. 1, commi 7-15 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, nel decreto-legge
20 giugno 1997, n. 175, convertito nella legge 7 agosto 1997, n. 272,
concernenti la disciplina dell’attività libero-professionale espletata dai
medici dipendenti dal Servizio sanitario nazionale (SSN), tenendo anche conto
dei decreti del Ministro della sanità 28 febbraio 1997 e 11 giugno 1997 e del
contratto collettivo nazionale di lavoro relativo alla dirigenza medica e
veterinaria del comparto sanitario, sottoscritto in data 5 dicembre 1996.
Secondo il Tar per la Puglia, la modificazione del quadro normativo di
riferimento non influirebbe sulla perdurante rilevanza della questione, in
quanto i giudizi hanno ad oggetto l’accertamento del diritto dei ricorrenti ad
ottenere per l’anno 1996 una retribuzione non <<decurtata del 15%
dell’indennità di tempo pieno>>, sicché essi devono applicare proprio la
norma denunciata.
3.1.
I giudici a quibus sostengono che la ratio dell’indennità prevista dall’art.
110, comma 1, del d.P.R. 28 novembre 1990, n. 384, decurtata dalla norma
denunziata, è di retribuire <<la più intensa partecipazione alle attività
istituzionali collegate al rapporto di lavoro a tempo pieno>>,
incentivando <<l’opzione per tale tipo di rapporto>> in
considerazione della maggiore durata della prestazione lavorativa. L’indennità
avrebbe, quindi, natura retributiva, costituendo <<il corrispettivo
sinallagmatico di una particolare prestazione di lavoro prestabilita>>,
erogato <<in maniera fissa e continuativa>>. La disposizione in esame,
decurtandola senza prevedere una proporzionale riduzione della prestazione
lavorativa, a loro avviso, avrebbe <<alterato il rapporto sinallagmatico
tra prestazione e controprestazione>>, in violazione dell’art. 36 della
Costituzione, il quale garantisce una retribuzione proporzionata alla quantità
e qualità del lavoro, anche perché il parametro di valutazione della
sufficienza della retribuzione sarebbe costituito dalla indennità nell’importo
non ridotto attribuita al <<personale medico tempo-pienista>>.
I
giudici amministrativi deducono che la norma censurata recherebbe vulnus anche
all’art. 3 della Costituzione, il quale, secondo la giurisprudenza
costituzionale, garantisce la <<parità di trattamento quando uguali siano
le condizioni soggettive ed oggettive e le situazioni obbiettivamente
omogenee>> (sentenze n. 3 del 1957; n. 28 del 1957; n. 85 del 1979; n. 11
del 1981). La disposizione, a loro avviso, realizzerebbe una ingiustificata
disparità di trattamento tra i medici ospedalieri in regime di tempo pieno, in
quanto riduce l’indennità in danno di quelli che svolgono attività
libero-professionale extra moenia, nonostante essi rendano una prestazione
identica a quella dei loro colleghi che non la esercitano. Inoltre, la norma
discriminerebbe ingiustificatamente i medici che esercitano la libera
professione extramuraria, penalizzando <<una “scelta” che spesso non è
tale>>, in quanto l’attività intra moenia in molti casi non può essere
svolta per carenze ascrivibili all’amministrazione.
4.
Il Tar per l’Emilia-Romagna svolge argomentazioni sostanzialmente analoghe a
quelle sviluppate nelle ordinanze del Tar per la Puglia in riferimento al
parametro dell’art. 3 della Costituzione. Inoltre, il giudice a quo eccepisce
che la prestazione resa dai medici ospedalieri a tempo pieno non potrebbe
essere diversamente valutata secondo che essi espletino o meno attività
libero-professionale extra-moenia, sicché non sarebbe giustificata la
differente retribuzione stabilita dalla norma impugnata. Infine, secondo il
Collegio, la circostanza che la libera professione è penalizzata soltanto
qualora sia esercitata al di fuori della struttura pubblica violerebbe anche
l’art. 4 della Costituzione.
5.
Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in tutti i giudizi. In
sette di essi, con altrettanti atti di identico contenuto, ha chiesto sia
reiterata la decisione di restituzione degli atti adottata con l’ordinanza n.
255 del 1997; nel giudizio relativo al provvedimento di rimessione r.o. n. 126
del 1998, ha invece eccepito che la questione è infondata. La difesa erariale,
nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica in uno dei
giudizi, alla quale ha fatto rinvio negli analoghi atti difensivi depositati
negli altri, ha svolto argomentazioni a conforto dell’eccezione di
infondatezza.
La difesa erariale premette che, secondo un principio generale del
pubblico impiego, l’impiegato non può esercitare nessuna attività al di fuori
di tale rapporto, fatta eccezione per casi particolari. La disciplina del
regime dell’incompatibilità dei medici ospedalieri risale alla legge 12
febbraio 1968, n. 132, che distingueva il rapporto di lavoro in rapporto a
tempo pieno ed a tempo definito e soltanto dalla scelta per il primo derivava
la rinuncia all’esercizio dell’attività libero-professionale extra ospedaliera.
I medici a tempo pieno potevano svolgere la <<libera professione nelle
camere a pagamento>>; quelli a tempo definito potevano esercitarla al di
fuori delle strutture ospedaliere, purché non <<in concorrenza con gli
interessi dell’ospedale>>, e soltanto ai primi era attribuito un
<<premio di servizio>>. Il d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, secondo
l’interveniente, avrebbe confermato siffatti principi, esplicitando che
finalità dell’indennità di tempo pieno è quella di retribuire il medico a tempo
pieno per l’attività resa oltre l’orario di servizio e di indennizzarlo per il
mancato esercizio dell’attività extramuraria.
La legge 30 dicembre 1991, n. 412, ad avviso dell’Avvocatura, permettendo
ai medici a tempo pieno di esercitare la libera professione extramuraria
avrebbe posto il problema della legittimità dell’indennità in esame ed il
Consiglio di Stato avrebbe prospettato l’opportunità di una reductio ad
equitatem, da realizzare in occasione del rinnovo del contratto collettivo
nazionale di lavoro. Pertanto, eccepisce la difesa erariale, il legislatore,
nell’esercizio della propria discrezionalità, con la norma impugnata avrebbe
inteso conservare una ragionevole diversità di trattamento esistente da
trent’anni.
La disposizione – sostiene, inoltre, l’interveniente – costituisce
parte di un più ampio disegno di riforma, avviato con il d.lgs. 30 dicembre
1992, n. 502, che mira a ricondurre l’esercizio dell’attività
libero-professionale dei medici all’interno delle strutture pubbliche,
soprattutto dopo che è stata loro attribuita la qualifica dirigenziale e la
sanità è stata organizzata secondo un modello aziendale, che agisce in
concorrenza con le strutture private. Infatti, i medici, proprio in quanto
dirigenti, contribuiscono alle scelte strategiche ed operative delle aziende
nelle quali operano, sicché la disciplina del rapporto è stata ispirata dalla
finalità di controbilanciare le nuove regole in materia di incompatibilità e di
garantire nuove entrate alle aziende ospedaliere.
L’incentivazione dell’attività intra moenia è stata confermata
dall’art. 1, comma 12, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e perfezionata
dall’art. 72, commi 4, 5, 6 e 7, della legge 23 dicembre 1998, n. 448,
all’interno di una equilibrata valutazione di opzioni che hanno grande rilievo
strategico per lo sviluppo del sistema sanitario nazionale. L’art. 36 della
Costituzione, eccepisce la difesa erariale, neppure risulta leso, sia perché,
in presenza di circostanze particolari, è legittima la differenziazione del
trattamento economico di lavoratori subordinati che espletano identiche
mansioni, sia perché la norma riguarda la retribuzione complessiva e non le
singole voci della medesima. Secondo l’interveniente, neppure sarebbe vulnerato
l’art. 3 della Costituzione, dato che non è ragionevole attribuire l’indennità
di tempo pieno ai medici i quali possono esercitare la libera professione extra
moenia.
La norma impugnata, conclude l’Avvocatura, assolve ad una importante
funzione in vista dell’attuazione del nuovo assetto del sistema sanitario e
mira ad incentivare la scelta per l’attività intramuraria. Pertanto, essa non
realizza affatto una non ragionevole disparità di trattamento, anche perché le
situazioni poste in comparazione non sono neppure omogenee tra loro.
6. In uno dei giudizi sollevati dal Tar per la
Puglia, sezione staccata di Lecce (R.O. n. 126 del 1998), si sono costituiti,
con separati atti, il ricorrente, nonché il Coordinamento italiano dei medici
ospedalieri-associazione sindacale medici dirigenti (Cimo-Asmd), i quali hanno
svolto argomentazioni a sostegno delle censure di costituzionalità.
6.1. Il ricorrente, nell’atto di costituzione e
nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, fa
sostanzialmente proprie le argomentazioni svolte dai giudici rimettenti. In
particolare, egli sostiene che l’indennità di tempo pieno costituirebbe il
corrispettivo per il maggiore impegno richiesto dal rapporto di lavoro a tempo
pieno e la sua quantificazione non potrebbe essere influenzata dall’eventuale
esercizio della libera professione extra moenia. Inoltre, secondo la parte
privata, la norma violerebbe l’art. 3 della Costituzione, in quanto il diverso
trattamento economico non tiene conto del fatto che molto spesso l’esercizio
della libera professione intramuraria è impedita dalla mancata predisposizione
da parte della pubblica amministrazione delle strutture necessarie a tal fine.
Il ricorrente nel giudizio principale svolge, infine, argomentazioni
dirette a dimostrare che la norma denunziata si pone in contrasto anche con gli
artt. 97 e 4 della Costituzione, parametri non indicati nell’ordinanza del Tar
per la Puglia.
6.2. Il Cimo-Asmd, dopo che la Corte aveva ordinato
la restituzione degli atti ai giudici amministrativi per il riesame della
perdurante rilevanza della questione di costituzionalità, ha dispiegato
intervento innanzi al Tar e si è poi costituito nel giudizio promosso
dall’ordinanza con la quale è stata nuovamente sollevata la questione di
legittimità costituzionale.
L’associazione, in linea preliminare, svolge argomentazioni per
dimostrare di essere legittimata a spiegare intervento nel giudizio di
costituzionalità.
Nel merito, l’interveniente ricostruisce l’evoluzione normativa che ha
condotto all’affermazione del diritto di svolgere attività libero-professionale
da parte del medico-pubblico dipendente e che, a suo avviso, avrebbe inteso
incentivare le esperienze di pratica professionale, nell’interesse degli utenti
e della collettività. Nel corso di siffatta evoluzione, l’art. 35 del d.P.R. n.
761 del 1979 ha previsto che il medico con rapporto di lavoro a tempo pieno
potesse esercitare l’attività libero-professionale soltanto nell’ambito dei
servizi e delle strutture della Usl, fatta eccezione per i consulti e per le
consulenze non continuative; il medico con rapporto di lavoro a tempo definito
poteva, invece, svolgerla anche al di fuori di dette strutture, nel rispetto di
determinate prescrizioni.
L’attenuazione delle differenze tra le due tipologie di rapporto,
osserva il Cimo-Asmd, spiegherebbe il successivo riconoscimento del diritto dei
medici con rapporto di lavoro a tempo pieno di svolgere attività
libero-professionale extra moenia (4, comma 7, della legge 30 dicembre 1991, n.
412). L’obbligo di riservare spazi adeguati per l’esercizio della libera
professione intramuraria, da reperire, in casi determinati, anche mediante
contratti tra le unità sanitarie locali e case di cura ovvero altre strutture
sanitarie pubbliche (artt. 4, comma 10, d. lgs. n. 502 del 1992, 1, comma 8,
della legge 23 dicembre 1996, n. 662, ed art. 2 del decreto del Ministro della
sanità del 31 luglio 1997), mirerebbe, quindi, a garantirne lo svolgimento,
bilanciando la più rigorosa disciplina dell’incompatibilità ed assicurando
nuove entrate alle aziende ospedaliere, dotate di autonomia finanziaria
(sentenza n. 355 del 1993).
La norma denunziata, come pure l’art. 1, comma 12, della legge n. 662
del 1996, disposizione non censurata nell’ordinanza di rimessione, ad avviso
del Cimo-Asmd, contrasterebbero con l’evoluzione del sistema e realizzerebbero
una ingiustificata disparità di trattamento, discriminando altresì i medici
secondo che essi possano esercitare attività professionale extramuraria in ambulatorio,
ovvero debbano svolgerla all’interno di strutture attrezzate tecnologicamente.
Infatti, in quest’ultimo caso, nonostante essi sostengano maggiori spese, non
soltanto non beneficiano di agevolazioni, ma subiscono anche la riduzione
dell’indennità di tempo pieno. In tal modo, conclude il Cimo-Asmd, non sarebbe
neppure possibile trattenere nella struttura pubblica il medico migliore, con
conseguente lesione del diritto dei singoli alla salute e dell’interesse della
collettività al bene salute.
1. La questione di legittimità costituzionale,
sollevata con le ordinanze indicate in epigrafe, riguarda l’art. 4, comma 3,
della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza
pubblica), nella parte in cui stabilisce per i medici del Servizio sanitario
nazionale in regime di tempo pieno che “a decorrere dal 1° gennaio 1996 la
corresponsione dell’indennità di tempo pieno (...) è sospesa, limitatamente al
15 per cento del suo importo, per il personale dipendente che esercita
l’attività libero professionale (...) all’esterno delle strutture sanitarie
pubbliche”.
Secondo i giudici rimettenti, tale decurtazione
violerebbe gli artt. 3 e 36 della Costituzione, in quanto avrebbe, in modo di
per sé irragionevole, alterato “il rapporto sinallagmatico tra prestazione e
controprestazione”, rendendo così la retribuzione non proporzionata alla
quantità e qualità del lavoro svolto, anche perché i giudici a quibus ritengono
che il criterio di valutazione della sufficienza della retribuzione sia
costituito proprio da detta indennità attribuita al “personale medico
tempo-pienista”.
Inoltre, ad avviso dei rimettenti, la disposizione
realizzerebbe anche un’ingiustificata disparità di trattamento tra i medici
ospedalieri con rapporto di lavoro a tempo pieno, dato che la riduzione appare
stabilita esclusivamente in danno di quanti di essi esercitano attività
libero-professionale extra moenia, nonostante la situazione sia omologa
rispetto a quella dei loro colleghi che la esercitano intra moenia.
Tale disparità di trattamento non sarebbe in alcun
modo giustificata, anche perché la norma impugnata finirebbe con il penalizzare
“una <<scelta>> che spesso non è tale”, dato che in molti casi
l’opzione per l’esercizio dell’attività intramuraria sarebbe impedita dalla
mancata predisposizione, da parte dell’Amministrazione, degli spazi e delle
strutture necessarie a tale scopo.
Infine, secondo il Tar per l’Emilia-Romagna,
l’attività libero-professionale costituirebbe esplicazione del diritto al
lavoro, cosicché la sua penalizzazione, qualora essa sia esercitata al di fuori
della struttura pubblica sanitaria, determinerebbe anche la lesione dell’art. 4
della Costituzione.
I predetti giudizi riguardano una medesima norma,
sotto profili in larga parte coincidenti, cosicché appare opportuno che siano
riuniti per essere decisi con un’unica sentenza.
2. In via preliminare va riconosciuta la
legittimazione del Cimo-Asmd a costituirsi nel giudizio innanzi a questa Corte,
poiché tale associazione ha dispiegato intervento in uno dei giudizi a quibus,
anche se successivamente alla ordinanza di restituzione degli atti n. 255 del
1997, ma comunque prima della rimessione a questa Corte delle ordinanze ora in
esame.
Ancora in via preliminare va osservato che il Tar
per la Puglia ha plausibilmente argomentato sulla perdurante rilevanza della
questione, oggetto della predetta ordinanza di questa Corte.
3. Nel merito, la questione non è fondata.
Va innanzi tutto precisato che il thema decidendum del presente giudizio
deve limitarsi esclusivamente all’art. 4, comma 3, della legge 23 dicembre
1994, n.724 in riferimento agli artt. 3, 4 e 36 della Costituzione, poiché non
possono essere presi in considerazione, oltre i limiti fissati dall’ordinanza
di rimessione, ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle
parti, sia che siano stati eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo, sia
che siano comunque diretti ad ampliare o modificare successivamente il
contenuto della stessa ordinanza (ex plurimis: sentenze n. 49 del 1999 e n. 63
del 1998).
4. L’ordinanza di rimessione, in primo
luogo, prospetta la violazione dell’art. 36 della Costituzione sotto il profilo
che la norma impugnata avrebbe imposto ad una sola categoria del personale
medico la riduzione di una delle voci della retribuzione, stabilendo così un
trattamento economico peggiorativo, senza prevedere una proporzionale riduzione
della prestazione lavorativa.
In proposito, va osservato, innanzi tutto, che l’art. 36 della
Costituzione, secondo la giurisprudenza costituzionale, garantisce al
lavoratore una retribuzione che, nella sua globalità, gli assicuri un’esistenza
libera e dignitosa, cosicché la riduzione di una singola componente della
retribuzione non può, di per sé sola, costituire una lesione della disposizione
costituzionale (sentenze n. 15 del 1995, n. 164 del 1994 e n. 1 del 1986).
Tanto più che, secondo un consolidato principio della giurisprudenza di questa
Corte, il divieto di reformatio in peius rappresenta un criterio ermeneutico
del tutto inidoneo, in assenza di una specifica copertura costituzionale, a
vincolare il legislatore (cfr. da ultimo sentenza n. 219 del 1998), al quale
quindi non è vietato di approvare norme le quali modifichino sfavorevolmente,
senza che per questo solo sia vulnerato l’art. 36, primo comma, della
Costituzione, la disciplina dei rapporti di durata neppure nel caso in cui
riguardino diritti soggettivi perfetti, purché tali modifiche non trasmodino in
un regolamento irrazionale o incidano arbitrariamente sulle situazioni
sostanziali poste in essere da leggi precedenti (sentenze nn. 417 e 179 del
1996, n. 390 del 1995).
Secondo l’indirizzo di questa Corte, dunque, l’art.
36, primo comma, della Costituzione garantisce al lavoratore una retribuzione
proporzionata alla quantità e qualità del lavoro, senza però impedire che si
possa procedere a nuove valutazioni e a variare di conseguenza l’entità delle
singole voci retributive (sentenza n. 32 del 1986), poiché rientrano nella
discrezionalità del legislatore, fermo il limite della ragionevolezza, tanto la
differenziazione del trattamento economico di categorie prima egualmente
retribuite, quanto l’attribuzione in maniera uniforme di determinate componenti
della retribuzione o di particolari indennità (sentenze n. 63 del 1998, n. 65
del 1997).
Alla luce di questi principi giurisprudenziali,
pertanto, la riduzione dell’indennità in questione, di per sé, non viola l’art.
36 della Costituzione, anche se occorre accertare, in riferimento all’ulteriore
parametro dell’art. 3 della Costituzione, che la norma impugnata non abbia un
contenuto arbitrario e preveda una ragionevole giustificazione della diversità
di trattamento rispetto alle situazioni poste a raffronto.
5. Ai fini di una più precisa individuazione
della ratio della norma censurata può essere utile il suo inquadramento
nell’ambito dell’evoluzione legislativa del rapporto di lavoro e delle
incompatibilità inerenti ai medici dipendenti pubblici. In proposito, questa
Corte aveva considerato che “già la preesistente normativa (art. 19 del r.d. 30
settembre 1938, n. 1631; art. 13 bis del d.lgs. 3 maggio 1948, n. 949,
ratificato con modificazioni ed aggiunte dalla legge 4 novembre 1951 n. 1188;
art. 3 della legge 10 maggio 1964, n. 336) vietava al personale sanitario
ospedaliero ogni forma di esercizio professionale esterno in concorrenza con
gli interessi dell’ospedale” (sentenza n. 103 del 1977). Ma è specialmente con
l’art. 43 lett. d della legge 12 febbraio 1968, n. 132 che veniva stabilito il
principio dell’incompatibilità tra rapporto di servizio “a tempo definito” del
medico ospedaliero ed esercizio professionale in case di cura private, proprio
perché, rispetto alla scelta legislativa di potenziare con nuove strutture il
servizio pubblico di assistenza ospedaliera, avrebbe avuto -secondo la
ricordata sentenza n. 103 del 1977- “effetti negativi ed impeditivi il
consentire alla collaterale organizzazione dell’assistenza sanitaria privata di
assorbire, con impegni quasi sempre non accidentali, il personale sanitario
ospedaliero”.
Questa scelta legislativa veniva confermata dal
decreto delegato 27 marzo 1969, n. 130, che, dando attuazione al suddetto
principio di incompatibilità, definiva compiutamente due diverse tipologie di
rapporti. Esso infatti stabiliva, all’art. 24, che il rapporto a “tempo pieno”
-al quale il medico è ammesso “a domanda”- comporta l’attribuzione di un
“premio di servizio”, ma anche “rinuncia alla attività libero-professionale
extra-ospedaliera” e “totale disponibilità” per i compiti d’istituto dell’ente
ospedaliero, mentre il rapporto a “tempo definito” comporta “la facoltà del
libero esercizio professionale, anche fuori dell’ospedale”, purché non in
contrasto con le incompatibilità disposte dal predetto art. 43 lett. d della
citata legge n. 132.
L’impianto di tale disciplina neppure è stato, sotto
questi profili, sostanzialmente modificato dalla riforma sanitaria della fine
degli anni Settanta, la quale anzi ha espressamente ribadito il diritto dei
medici a “tempo pieno” di esercitare attività libero-professionale intramurale,
e cioè esclusivamente “nell’ambito dei servizi, presidi e strutture dell’unità
sanitaria locale, sulla base di norme regionali”, limitandola, fuori di essa,
soltanto a “consulti e consulenze non continuativi”, autorizzati “sulla base di
norme regionali” (art. 35, secondo comma, lettere c e d del d.P.R. 20 dicembre
1979, n. 761).
Restava confermata per i medici con rapporto di
servizio a “tempo definito” la facoltà di svolgere -purché in orari compatibili
e non in contrasto con gli interessi ed i fini istituzionali dell’unità
sanitaria- libera attività professionale extramuraria, cioè al di fuori
dell’unità sanitaria locale, anche “in regime convenzionale”, in conformità
alle direttive degli accordi nazionali (art. 35, comma 5, lett. c e d).
L’evoluzione legislativa del sistema sanitario
pubblico compiuta fino a quel momento indicava dunque una precisa distinzione
in due tipi del rapporto di servizio dei medici, sulla base di una diversità di
impegni, modalità ed orario di lavoro, nonché in relazione alla peculiare
disciplina della libera professione intramuraria.
5.1.
In questo quadro
normativo, si è inserito in modo innovativo l’art. 4, comma 7, della legge 30
dicembre 1991, n. 412, con il quale il legislatore, secondo questa Corte, ha
inteso sancire “con rigore il principio di unicità del rapporto di lavoro con
il Servizio sanitario nazionale, avendolo ritenuto particolarmente valido al
fine di soddisfare l’esigenza, costituzionalmente protetta, di restituire
massima efficienza ed operatività alla rete sanitaria pubblica”(sentenza n. 457
del 1993).
Con
questa disciplina il legislatore vietava ai medici a “tempo definito”
prestazioni di lavoro in regime convenzionale o presso strutture convenzionate,
ma in compenso veniva a liberalizzare del tutto l’esercizio dell’attività
professionale sia extra che intramuraria e ad “incentivare la scelta per il
rapporto di lavoro dipendente, assicurando in tal caso, a semplice domanda, il
passaggio dal <<tempo definito>> al <<tempo pieno>>, anche
in soprannumero” (sentenza n. 457 del 1993), con conseguente incremento di
retribuzione. La liberalizzazione dell’esercizio della attività professionale
in regime esclusivamente privatistico per tutto il personale sanitario
comportava, d’altra parte, che anche i medici a “tempo pieno” potessero
svolgere attività extramuraria, senza la precedente limitazione ai soli
consulti e consulenze non continuativi.
5.2.
La nuova disciplina
delle incompatibilità mediche e dell’attività libero-professionale, disposta dalla
citata legge n. 412, si conformava, per certi aspetti, alla logica della
aziendalizzazione del Servizio sanitario e della “privatizzazione” del rapporto
di lavoro del personale dipendente accolta dagli artt. 1 e 2 della legge 23
ottobre 1992, n. 421. Logica che si evidenziava più chiaramente con i decreti
delegati n. 502 del 1992 (come modificato dal d.lgs. n. 517 del 1993) e n. 29
del 1993, i quali fissavano il principio dell’unicità del ruolo dirigenziale
del personale sanitario in un quadro di progressiva aziendalizzazione delle
unità sanitarie locali e degli ospedali.
Si veniva così a determinare una
situazione in cui soggetti -pubblici e privati- che erogavano prestazioni per
conto del Servizio sanitario nazionale, potevano essere scelti liberamente dal
cittadino e venivano retribuiti in base alle prestazioni rese. In questo modo
si veniva a ribadire il principio di concorrenzialità tra strutture sanitarie
pubbliche e strutture sanitarie private, alla cui luce però rischiava di
apparire contraddittoria la facoltà, riconosciuta al sanitario dipendente
pubblico, di esercitare l’attività professionale anche all’esterno della
struttura di appartenenza. Tanto più, se si considera che il dirigente medico,
in questo nuovo modello organizzativo, appariva in grado di contribuire
efficacemente a determinare sia le scelte strategiche ed operative
dell’azienda, attraverso la partecipazione al Consiglio dei sanitari, sia
quelle specifiche del dipartimento o del servizio, cui era preposto.
Esistevano quindi le premesse per il profilarsi di
una situazione di conflitto di interessi, qualora il medico svolgesse libera
attività professionale extramuraria. E proprio per evitare questa situazione,
il legislatore, nella sua discrezionalità, da un lato, ha adottato misure per
estendere il divieto di svolgere attività extramuraria anche riguardo a
istituzioni e strutture private, delle quali l’unità sanitaria locale si
avvaleva per prestazioni specialistiche, di diagnostica strumentale e di
laboratorio ed ospedaliere (art. 8, commi 5 e 9 del d.lgs. n. 502 del 1992).
Dall’altro lato, ha adottato misure per incentivare
l’attività professionale intramuraria, che questa Corte aveva già considerato
elemento qualificante della riforma sanitaria, in quanto, tra l’altro, permette
che “le aziende ospedaliere, dotate di piena autonomia finanziaria, possano
effettivamente beneficiare di nuove entrate” (sentenza n. 355 del 1993).
In effetti la libera professione intramuraria, che
si è sempre più venuta caratterizzando come tertium genus per la compresenza,
accanto agli elementi propri del rapporto d’opera professionale, di altri
propri del rapporto di lavoro subordinato -quali, ad esempio, il trattamento
fiscale, la fissazione delle tariffe e la determinazione del riparto dei
compensi da parte dell’Amministrazione- può apparire uno strumento utile per il
conseguimento degli scopi assegnati alle strutture sanitarie pubbliche.
In questo ordine di idee si colloca la norma
censurata, che prevedendo una riduzione dell’indennità per i medici a “tempo
pieno” che svolgono attività professionale extramuraria, si inserisce nel
prospettato disegno legislativo diretto a disincentivare, anche attraverso la
dichiarata incompatibilità tra i due tipi di attività professionale (art. 1,
comma 5, della legge n. 662 del 1996), la scelta per la libera professione
extramuraria e diretto invece a funzionalizzare l’attività intramuraria
rispetto agli obiettivi delle strutture sanitarie pubbliche, prevedendo forme
di conversione dell’interesse esclusivo del singolo medico all’espletamento
della professione in interesse concorrente dell’azienda ospedaliera, che
potrebbe accrescere la propria capacità di offerta anche “attraverso il ricorso
all’attività libero-professionale intramuraria” (art. 3, comma 12, lett. a del
d.lgs. n. 124 del 1998). In questo modo tale attività appare in grado non solo
di assicurare al servizio pubblico sanitario maggiori entrate, ma di realizzare
anche, in conseguenza dell’innovazione del sistema di remunerazione delle
prestazioni (art. 4, comma 7-ter, del d.lgs. n. 502 del 1992, introdotto
dall’art. 6 della legge n. 724 del 1994), economie di gestione.
6. Nel quadro di una evoluzione legislativa
diretta a conferire maggiore efficienza, anche attraverso innovazioni del
rapporto di lavoro dei dipendenti, all’organizzazione della sanità pubblica
così da renderla concorrenziale con quella privata, non solo non appare
irragionevole la previsione di limiti all’esercizio dell’attività
libero-professionale da parte dei medici del Servizio sanitario nazionale
(ordinanze n. 450 e n. 214 del 1994), ma si giustifica anche una diversa
incidenza delle componenti retributive delle varie forme nelle quali tale
attività si esplica, in proporzione alla differente attitudine a realizzare gli
obiettivi fissati dalla legge.
Né, in particolare, viola gli artt. 3 e 36 la riduzione dell’indennità
di tempo pieno, disposta dalla norma censurata, in quanto tale misura, mentre
appare coerente con le finalità legislative di incentivazione dell’attività
intramuraria non sembra incongrua sul piano applicativo, poiché incide sulla
indennità di tempo pieno, la quale, come è noto, ha anche la funzione di
compensare i mancati proventi derivanti dallo svolgimento dell’attività
professionale extramuraria.
D’altronde, la riduzione dell’indennità è stata disposta con decorrenza
differita nel tempo, nell’ambito di precise modalità di opzione a favore
dell’uno o dell’altro regime di lavoro, cosicché la situazione in cui viene a
trovarsi il medico a “tempo pieno” che espleta anche attività extramuraria è
del tutto peculiare, costituendo la conseguenza di una sua libera scelta; il
che rappresenta un ulteriore profilo di non irragionevolezza della disposizione
(sentenza n. 457 del 1993).
D’altra parte, l’operatività delle molteplici disposizioni dirette,
sulla base di diversi modelli organizzativi, a garantire -anche attraverso la
previsione di specifici obblighi e di correlative responsabilità gravanti sui
direttori generali delle aziende sanitarie- ai medici dipendenti dal Servizio sanitario
nazionale la concreta possibilità di esercitare la libera professione
intramuraria non può essere vanificata da difficoltà attuative generalmente
riconducibili ad inadempimenti delle aziende sanitarie locali.
7. Una volta accertato che la disposizione
censurata non può ritenersi irragionevole e che anzi essa è ispirata
dall’intento di garantire l’efficienza dell’organizzazione sanitaria pubblica,
va esclusa anche la violazione dell’art. 4 della Costituzione. Innanzi tutto va
considerato che questa disposizione concerne precipuamente l’accesso al mercato
del lavoro (tra le più recenti, sentenza n. 293 del 1997). In secondo luogo, va
rilevato che la denunciata -e comunque indiretta- limitazione all’esercizio
della libera professione, peraltro frutto di una precisa scelta del medico,
viene posta quale forma di tutela di altri valori, pure costituzionalmente
garantiti, a seguito di un bilanciamento non irragionevole tra interessi
contrapposti (sentenza n. 457 del 1993). In ogni caso va rilevato che dal riconoscimento
dell’importanza costituzionale del lavoro, non deriva l’impossibilità di
prevedere condizioni e limiti per l’esercizio del relativo diritto (sentenza n.
103 del 1977), anche nelle forme dell’incentivazione di taluni tipi di
rapporto, purché essi siano preordinati alla tutela di altri interessi e di
altre esigenze sociali parimenti fatti oggetto, come nel caso in esame, di
protezione costituzionale.
LA
CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi,
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4,
comma 3, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione
della finanza pubblica), sollevata in riferimento agli artt. 3, 4 e 36 della
Costituzione dal Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione
staccata di Lecce, e dal Tribunale amministrativo regionale per
l’Emilia-Romagna, prima sezione di Bologna, con le ordinanze indicate in
epigrafe.
Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,
il 14 luglio 1999.
Renato
GRANATA, Presidente
Piero
Alberto CAPOTOSTI, Redattore
Depositata
in cancelleria il 20 luglio 1999.