(Il testo non riveste carattere di ufficialità)

 

 

SENTENZA N. 330  ANNO 1999

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

 

 

 

composta dai signori:

·        Dott. Renato GRANATA         Presidente

·        Prof. Giuliano VASSALLI         Giudice

·        Prof. Francesco GUIZZI             

·        Prof. Cesare MIRABELLI                   

·        Prof. Fernando SANTOSUOSSO       

·        Avv. Massimo VARI                               

·        Dott. Cesare RUPERTO                   

·        Prof. Gustavo ZAGREBELSKY         

·        Prof. Valerio ONIDA                           

·        Prof. Carlo MEZZANOTTE                 

·        Avv. Fernanda CONTRI             

·        Prof. Guido NEPPI MODONA           

·        Prof. Piero Alberto CAPOTOSTI                

·        Prof. Annibale MARINI               

 

ha pronunciato la seguente

 

SENTENZA

 

 

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), promossi con ordinanze emesse il 22 ottobre 1997 (n. 8 ordinanze) dal Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, ed il 5 novembre 1997 dal Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia Romagna, rispettivamente iscritte ai nn. 47, 48, 49, 50, 51, 52, 53, 126 e 531 del registro ordinanze 1998 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 6, 10 e 29, prima serie speciale, dell’anno 1998.

Visti gli atti di costituzione di G. D. R., del Coordinamento italiano dei medici ospedalieri–associazione sindacale medici dirigenti (Cimo-Asmd), nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 23 marzo 1999 il Giudice relatore Piero Alberto Capotosti;

uditi gli avv.ti Angelo Vantaggiato per .. (omissis) ..., Alberto Marconi per il Cimo-Asmd e l’Avvocato dello Stato Francesco Guicciardi per il Presidente del Consiglio dei ministri.

 

 

Ritenuto in fatto

 

 

1.  Il Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, con otto ordinanze in data 22 ottobre 1997, emesse in altrettanti giudizi, ed il Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna, prima sezione di Bologna, con ordinanza in data 5 novembre 1997, hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, nonché, il Tar per l’Emilia-Romagna, anche all’art. 4 della Costituzione.

 

2.  Le ordinanze di rimessione del Tar per la Puglia, di contenuto sostanzialmente identico, sono state emesse nel corso dei giudizi instaurati da medici dipendenti di Aziende sanitarie locali e di enti ospedalieri di detta regione. I ricorrenti esercitano attività libero-professionale extra moenia ed hanno chiesto l’accertamento del proprio diritto a percepire la retribuzione non decurtata ai sensi della norma impugnata, proponendo altresì domanda cautelare, accolta <<in via meramente interinale e provvisoria e nelle more della decisione da parte della Corte Costituzionale>>. Identico oggetto ha il giudizio innanzi al Tar per l’Emilia-Romagna, promosso da alcuni medici in servizio presso l’Azienda Ospedaliera di Bologna, Policlinico S. Orsola Malpighi.

 

3.  I giudici del Tar per la Puglia premettono che essi hanno già sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge n. 724 del 1994 in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione e che la Corte, con ordinanza n. 255 del 1997, ha disposto la restituzione degli atti, affinché ne riesaminassero la perdurante rilevanza alla luce delle sopravvenute modificazioni del quadro normativo, indicate nell’art. 1, commi 7-15 della legge 23 dicembre 1996, n. 662, nel decreto-legge 20 giugno 1997, n. 175, convertito nella legge 7 agosto 1997, n. 272, concernenti la disciplina dell’attività libero-professionale espletata dai medici dipendenti dal Servizio sanitario nazionale (SSN), tenendo anche conto dei decreti del Ministro della sanità 28 febbraio 1997 e 11 giugno 1997 e del contratto collettivo nazionale di lavoro relativo alla dirigenza medica e veterinaria del comparto sanitario, sottoscritto in data 5 dicembre 1996. Secondo il Tar per la Puglia, la modificazione del quadro normativo di riferimento non influirebbe sulla perdurante rilevanza della questione, in quanto i giudizi hanno ad oggetto l’accertamento del diritto dei ricorrenti ad ottenere per l’anno 1996 una retribuzione non <<decurtata del 15% dell’indennità di tempo pieno>>, sicché essi devono applicare proprio la norma denunciata.

 

3.1. I giudici a quibus sostengono che la ratio dell’indennità prevista dall’art. 110, comma 1, del d.P.R. 28 novembre 1990, n. 384, decurtata dalla norma denunziata, è di retribuire <<la più intensa partecipazione alle attività istituzionali collegate al rapporto di lavoro a tempo pieno>>, incentivando <<l’opzione per tale tipo di rapporto>> in considerazione della maggiore durata della prestazione lavorativa. L’indennità avrebbe, quindi, natura retributiva, costituendo <<il corrispettivo sinallagmatico di una particolare prestazione di lavoro prestabilita>>, erogato <<in maniera fissa e continuativa>>. La disposizione in esame, decurtandola senza prevedere una proporzionale riduzione della prestazione lavorativa, a loro avviso, avrebbe <<alterato il rapporto sinallagmatico tra prestazione e controprestazione>>, in violazione dell’art. 36 della Costituzione, il quale garantisce una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro, anche perché il parametro di valutazione della sufficienza della retribuzione sarebbe costituito dalla indennità nell’importo non ridotto attribuita al <<personale medico tempo-pienista>>.

 

I giudici amministrativi deducono che la norma censurata recherebbe vulnus anche all’art. 3 della Costituzione, il quale, secondo la giurisprudenza costituzionale, garantisce la <<parità di trattamento quando uguali siano le condizioni soggettive ed oggettive e le situazioni obbiettivamente omogenee>> (sentenze n. 3 del 1957; n. 28 del 1957; n. 85 del 1979; n. 11 del 1981). La disposizione, a loro avviso, realizzerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra i medici ospedalieri in regime di tempo pieno, in quanto riduce l’indennità in danno di quelli che svolgono attività libero-professionale extra moenia, nonostante essi rendano una prestazione identica a quella dei loro colleghi che non la esercitano. Inoltre, la norma discriminerebbe ingiustificatamente i medici che esercitano la libera professione extramuraria, penalizzando <<una “scelta” che spesso non è tale>>, in quanto l’attività intra moenia in molti casi non può essere svolta per carenze ascrivibili all’amministrazione.

 

4. Il Tar per l’Emilia-Romagna svolge argomentazioni sostanzialmente analoghe a quelle sviluppate nelle ordinanze del Tar per la Puglia in riferimento al parametro dell’art. 3 della Costituzione. Inoltre, il giudice a quo eccepisce che la prestazione resa dai medici ospedalieri a tempo pieno non potrebbe essere diversamente valutata secondo che essi espletino o meno attività libero-professionale extra-moenia, sicché non sarebbe giustificata la differente retribuzione stabilita dalla norma impugnata. Infine, secondo il Collegio, la circostanza che la libera professione è penalizzata soltanto qualora sia esercitata al di fuori della struttura pubblica violerebbe anche l’art. 4 della Costituzione.

 

5. Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in tutti i giudizi. In sette di essi, con altrettanti atti di identico contenuto, ha chiesto sia reiterata la decisione di restituzione degli atti adottata con l’ordinanza n. 255 del 1997; nel giudizio relativo al provvedimento di rimessione r.o. n. 126 del 1998, ha invece eccepito che la questione è infondata. La difesa erariale, nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica in uno dei giudizi, alla quale ha fatto rinvio negli analoghi atti difensivi depositati negli altri, ha svolto argomentazioni a conforto dell’eccezione di infondatezza.

 

La difesa erariale premette che, secondo un principio generale del pubblico impiego, l’impiegato non può esercitare nessuna attività al di fuori di tale rapporto, fatta eccezione per casi particolari. La disciplina del regime dell’incompatibilità dei medici ospedalieri risale alla legge 12 febbraio 1968, n. 132, che distingueva il rapporto di lavoro in rapporto a tempo pieno ed a tempo definito e soltanto dalla scelta per il primo derivava la rinuncia all’esercizio dell’attività libero-professionale extra ospedaliera. I medici a tempo pieno potevano svolgere la <<libera professione nelle camere a pagamento>>; quelli a tempo definito potevano esercitarla al di fuori delle strutture ospedaliere, purché non <<in concorrenza con gli interessi dell’ospedale>>, e soltanto ai primi era attribuito un <<premio di servizio>>. Il d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761, secondo l’interveniente, avrebbe confermato siffatti principi, esplicitando che finalità dell’indennità di tempo pieno è quella di retribuire il medico a tempo pieno per l’attività resa oltre l’orario di servizio e di indennizzarlo per il mancato esercizio dell’attività extramuraria.

La legge 30 dicembre 1991, n. 412, ad avviso dell’Avvocatura, permettendo ai medici a tempo pieno di esercitare la libera professione extramuraria avrebbe posto il problema della legittimità dell’indennità in esame ed il Consiglio di Stato avrebbe prospettato l’opportunità di una reductio ad equitatem, da realizzare in occasione del rinnovo del contratto collettivo nazionale di lavoro. Pertanto, eccepisce la difesa erariale, il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità, con la norma impugnata avrebbe inteso conservare una ragionevole diversità di trattamento esistente da trent’anni.

La disposizione – sostiene, inoltre, l’interveniente – costituisce parte di un più ampio disegno di riforma, avviato con il d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502, che mira a ricondurre l’esercizio dell’attività libero-professionale dei medici all’interno delle strutture pubbliche, soprattutto dopo che è stata loro attribuita la qualifica dirigenziale e la sanità è stata organizzata secondo un modello aziendale, che agisce in concorrenza con le strutture private. Infatti, i medici, proprio in quanto dirigenti, contribuiscono alle scelte strategiche ed operative delle aziende nelle quali operano, sicché la disciplina del rapporto è stata ispirata dalla finalità di controbilanciare le nuove regole in materia di incompatibilità e di garantire nuove entrate alle aziende ospedaliere.

L’incentivazione dell’attività intra moenia è stata confermata dall’art. 1, comma 12, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e perfezionata dall’art. 72, commi 4, 5, 6 e 7, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, all’interno di una equilibrata valutazione di opzioni che hanno grande rilievo strategico per lo sviluppo del sistema sanitario nazionale. L’art. 36 della Costituzione, eccepisce la difesa erariale, neppure risulta leso, sia perché, in presenza di circostanze particolari, è legittima la differenziazione del trattamento economico di lavoratori subordinati che espletano identiche mansioni, sia perché la norma riguarda la retribuzione complessiva e non le singole voci della medesima. Secondo l’interveniente, neppure sarebbe vulnerato l’art. 3 della Costituzione, dato che non è ragionevole attribuire l’indennità di tempo pieno ai medici i quali possono esercitare la libera professione extra moenia.

La norma impugnata, conclude l’Avvocatura, assolve ad una importante funzione in vista dell’attuazione del nuovo assetto del sistema sanitario e mira ad incentivare la scelta per l’attività intramuraria. Pertanto, essa non realizza affatto una non ragionevole disparità di trattamento, anche perché le situazioni poste in comparazione non sono neppure omogenee tra loro.

 

6.  In uno dei giudizi sollevati dal Tar per la Puglia, sezione staccata di Lecce (R.O. n. 126 del 1998), si sono costituiti, con separati atti, il ricorrente, nonché il Coordinamento italiano dei medici ospedalieri-associazione sindacale medici dirigenti (Cimo-Asmd), i quali hanno svolto argomentazioni a sostegno delle censure di costituzionalità.

 

6.1. Il ricorrente, nell’atto di costituzione e nella memoria depositata in prossimità dell’udienza pubblica, fa sostanzialmente proprie le argomentazioni svolte dai giudici rimettenti. In particolare, egli sostiene che l’indennità di tempo pieno costituirebbe il corrispettivo per il maggiore impegno richiesto dal rapporto di lavoro a tempo pieno e la sua quantificazione non potrebbe essere influenzata dall’eventuale esercizio della libera professione extra moenia. Inoltre, secondo la parte privata, la norma violerebbe l’art. 3 della Costituzione, in quanto il diverso trattamento economico non tiene conto del fatto che molto spesso l’esercizio della libera professione intramuraria è impedita dalla mancata predisposizione da parte della pubblica amministrazione delle strutture necessarie a tal fine.

 

Il ricorrente nel giudizio principale svolge, infine, argomentazioni dirette a dimostrare che la norma denunziata si pone in contrasto anche con gli artt. 97 e 4 della Costituzione, parametri non indicati nell’ordinanza del Tar per la Puglia.

6.2. Il Cimo-Asmd, dopo che la Corte aveva ordinato la restituzione degli atti ai giudici amministrativi per il riesame della perdurante rilevanza della questione di costituzionalità, ha dispiegato intervento innanzi al Tar e si è poi costituito nel giudizio promosso dall’ordinanza con la quale è stata nuovamente sollevata la questione di legittimità costituzionale.

 

L’associazione, in linea preliminare, svolge argomentazioni per dimostrare di essere legittimata a spiegare intervento nel giudizio di costituzionalità.

Nel merito, l’interveniente ricostruisce l’evoluzione normativa che ha condotto all’affermazione del diritto di svolgere attività libero-professionale da parte del medico-pubblico dipendente e che, a suo avviso, avrebbe inteso incentivare le esperienze di pratica professionale, nell’interesse degli utenti e della collettività. Nel corso di siffatta evoluzione, l’art. 35 del d.P.R. n. 761 del 1979 ha previsto che il medico con rapporto di lavoro a tempo pieno potesse esercitare l’attività libero-professionale soltanto nell’ambito dei servizi e delle strutture della Usl, fatta eccezione per i consulti e per le consulenze non continuative; il medico con rapporto di lavoro a tempo definito poteva, invece, svolgerla anche al di fuori di dette strutture, nel rispetto di determinate prescrizioni.

L’attenuazione delle differenze tra le due tipologie di rapporto, osserva il Cimo-Asmd, spiegherebbe il successivo riconoscimento del diritto dei medici con rapporto di lavoro a tempo pieno di svolgere attività libero-professionale extra moenia (4, comma 7, della legge 30 dicembre 1991, n. 412). L’obbligo di riservare spazi adeguati per l’esercizio della libera professione intramuraria, da reperire, in casi determinati, anche mediante contratti tra le unità sanitarie locali e case di cura ovvero altre strutture sanitarie pubbliche (artt. 4, comma 10, d. lgs. n. 502 del 1992, 1, comma 8, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, ed art. 2 del decreto del Ministro della sanità del 31 luglio 1997), mirerebbe, quindi, a garantirne lo svolgimento, bilanciando la più rigorosa disciplina dell’incompatibilità ed assicurando nuove entrate alle aziende ospedaliere, dotate di autonomia finanziaria (sentenza n. 355 del 1993).

La norma denunziata, come pure l’art. 1, comma 12, della legge n. 662 del 1996, disposizione non censurata nell’ordinanza di rimessione, ad avviso del Cimo-Asmd, contrasterebbero con l’evoluzione del sistema e realizzerebbero una ingiustificata disparità di trattamento, discriminando altresì i medici secondo che essi possano esercitare attività professionale extramuraria in ambulatorio, ovvero debbano svolgerla all’interno di strutture attrezzate tecnologicamente. Infatti, in quest’ultimo caso, nonostante essi sostengano maggiori spese, non soltanto non beneficiano di agevolazioni, ma subiscono anche la riduzione dell’indennità di tempo pieno. In tal modo, conclude il Cimo-Asmd, non sarebbe neppure possibile trattenere nella struttura pubblica il medico migliore, con conseguente lesione del diritto dei singoli alla salute e dell’interesse della collettività al bene salute.

 

 

Considerato in diritto

 

 

1.  La questione di legittimità costituzionale, sollevata con le ordinanze indicate in epigrafe, riguarda l’art. 4, comma 3, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), nella parte in cui stabilisce per i medici del Servizio sanitario nazionale in regime di tempo pieno che “a decorrere dal 1° gennaio 1996 la corresponsione dell’indennità di tempo pieno (...) è sospesa, limitatamente al 15 per cento del suo importo, per il personale dipendente che esercita l’attività libero professionale (...) all’esterno delle strutture sanitarie pubbliche”.

 

Secondo i giudici rimettenti, tale decurtazione violerebbe gli artt. 3 e 36 della Costituzione, in quanto avrebbe, in modo di per sé irragionevole, alterato “il rapporto sinallagmatico tra prestazione e controprestazione”, rendendo così la retribuzione non proporzionata alla quantità e qualità del lavoro svolto, anche perché i giudici a quibus ritengono che il criterio di valutazione della sufficienza della retribuzione sia costituito proprio da detta indennità attribuita al “personale medico tempo-pienista”.

Inoltre, ad avviso dei rimettenti, la disposizione realizzerebbe anche un’ingiustificata disparità di trattamento tra i medici ospedalieri con rapporto di lavoro a tempo pieno, dato che la riduzione appare stabilita esclusivamente in danno di quanti di essi esercitano attività libero-professionale extra moenia, nonostante la situazione sia omologa rispetto a quella dei loro colleghi che la esercitano intra moenia.

Tale disparità di trattamento non sarebbe in alcun modo giustificata, anche perché la norma impugnata finirebbe con il penalizzare “una <<scelta>> che spesso non è tale”, dato che in molti casi l’opzione per l’esercizio dell’attività intramuraria sarebbe impedita dalla mancata predisposizione, da parte dell’Amministrazione, degli spazi e delle strutture necessarie a tale scopo.

Infine, secondo il Tar per l’Emilia-Romagna, l’attività libero-professionale costituirebbe esplicazione del diritto al lavoro, cosicché la sua penalizzazione, qualora essa sia esercitata al di fuori della struttura pubblica sanitaria, determinerebbe anche la lesione dell’art. 4 della Costituzione.

I predetti giudizi riguardano una medesima norma, sotto profili in larga parte coincidenti, cosicché appare opportuno che siano riuniti per essere decisi con un’unica sentenza.

 

2.  In via preliminare va riconosciuta la legittimazione del Cimo-Asmd a costituirsi nel giudizio innanzi a questa Corte, poiché tale associazione ha dispiegato intervento in uno dei giudizi a quibus, anche se successivamente alla ordinanza di restituzione degli atti n. 255 del 1997, ma comunque prima della rimessione a questa Corte delle ordinanze ora in esame.

 

Ancora in via preliminare va osservato che il Tar per la Puglia ha plausibilmente argomentato sulla perdurante rilevanza della questione, oggetto della predetta ordinanza di questa Corte.

 

3.  Nel merito, la questione non è fondata.

 

Va innanzi tutto precisato che il thema decidendum del presente giudizio deve limitarsi esclusivamente all’art. 4, comma 3, della legge 23 dicembre 1994, n.724 in riferimento agli artt. 3, 4 e 36 della Costituzione, poiché non possono essere presi in considerazione, oltre i limiti fissati dall’ordinanza di rimessione, ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia che siano stati eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano comunque diretti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto della stessa ordinanza (ex plurimis: sentenze n. 49 del 1999 e n. 63 del 1998).

 

4.       L’ordinanza di rimessione, in primo luogo, prospetta la violazione dell’art. 36 della Costituzione sotto il profilo che la norma impugnata avrebbe imposto ad una sola categoria del personale medico la riduzione di una delle voci della retribuzione, stabilendo così un trattamento economico peggiorativo, senza prevedere una proporzionale riduzione della prestazione lavorativa.

 

In proposito, va osservato, innanzi tutto, che l’art. 36 della Costituzione, secondo la giurisprudenza costituzionale, garantisce al lavoratore una retribuzione che, nella sua globalità, gli assicuri un’esistenza libera e dignitosa, cosicché la riduzione di una singola componente della retribuzione non può, di per sé sola, costituire una lesione della disposizione costituzionale (sentenze n. 15 del 1995, n. 164 del 1994 e n. 1 del 1986). Tanto più che, secondo un consolidato principio della giurisprudenza di questa Corte, il divieto di reformatio in peius rappresenta un criterio ermeneutico del tutto inidoneo, in assenza di una specifica copertura costituzionale, a vincolare il legislatore (cfr. da ultimo sentenza n. 219 del 1998), al quale quindi non è vietato di approvare norme le quali modifichino sfavorevolmente, senza che per questo solo sia vulnerato l’art. 36, primo comma, della Costituzione, la disciplina dei rapporti di durata neppure nel caso in cui riguardino diritti soggettivi perfetti, purché tali modifiche non trasmodino in un regolamento irrazionale o incidano arbitrariamente sulle situazioni sostanziali poste in essere da leggi precedenti (sentenze nn. 417 e 179 del 1996, n. 390 del 1995).

Secondo l’indirizzo di questa Corte, dunque, l’art. 36, primo comma, della Costituzione garantisce al lavoratore una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro, senza però impedire che si possa procedere a nuove valutazioni e a variare di conseguenza l’entità delle singole voci retributive (sentenza n. 32 del 1986), poiché rientrano nella discrezionalità del legislatore, fermo il limite della ragionevolezza, tanto la differenziazione del trattamento economico di categorie prima egualmente retribuite, quanto l’attribuzione in maniera uniforme di determinate componenti della retribuzione o di particolari indennità (sentenze n. 63 del 1998, n. 65 del 1997).

Alla luce di questi principi giurisprudenziali, pertanto, la riduzione dell’indennità in questione, di per sé, non viola l’art. 36 della Costituzione, anche se occorre accertare, in riferimento all’ulteriore parametro dell’art. 3 della Costituzione, che la norma impugnata non abbia un contenuto arbitrario e preveda una ragionevole giustificazione della diversità di trattamento rispetto alle situazioni poste a raffronto.

 

5.  Ai fini di una più precisa individuazione della ratio della norma censurata può essere utile il suo inquadramento nell’ambito dell’evoluzione legislativa del rapporto di lavoro e delle incompatibilità inerenti ai medici dipendenti pubblici. In proposito, questa Corte aveva considerato che “già la preesistente normativa (art. 19 del r.d. 30 settembre 1938, n. 1631; art. 13 bis del d.lgs. 3 maggio 1948, n. 949, ratificato con modificazioni ed aggiunte dalla legge 4 novembre 1951 n. 1188; art. 3 della legge 10 maggio 1964, n. 336) vietava al personale sanitario ospedaliero ogni forma di esercizio professionale esterno in concorrenza con gli interessi dell’ospedale” (sentenza n. 103 del 1977). Ma è specialmente con l’art. 43 lett. d della legge 12 febbraio 1968, n. 132 che veniva stabilito il principio dell’incompatibilità tra rapporto di servizio “a tempo definito” del medico ospedaliero ed esercizio professionale in case di cura private, proprio perché, rispetto alla scelta legislativa di potenziare con nuove strutture il servizio pubblico di assistenza ospedaliera, avrebbe avuto -secondo la ricordata sentenza n. 103 del 1977- “effetti negativi ed impeditivi il consentire alla collaterale organizzazione dell’assistenza sanitaria privata di assorbire, con impegni quasi sempre non accidentali, il personale sanitario ospedaliero”.

 

Questa scelta legislativa veniva confermata dal decreto delegato 27 marzo 1969, n. 130, che, dando attuazione al suddetto principio di incompatibilità, definiva compiutamente due diverse tipologie di rapporti. Esso infatti stabiliva, all’art. 24, che il rapporto a “tempo pieno” -al quale il medico è ammesso “a domanda”- comporta l’attribuzione di un “premio di servizio”, ma anche “rinuncia alla attività libero-professionale extra-ospedaliera” e “totale disponibilità” per i compiti d’istituto dell’ente ospedaliero, mentre il rapporto a “tempo definito” comporta “la facoltà del libero esercizio professionale, anche fuori dell’ospedale”, purché non in contrasto con le incompatibilità disposte dal predetto art. 43 lett. d della citata legge n. 132.

L’impianto di tale disciplina neppure è stato, sotto questi profili, sostanzialmente modificato dalla riforma sanitaria della fine degli anni Settanta, la quale anzi ha espressamente ribadito il diritto dei medici a “tempo pieno” di esercitare attività libero-professionale intramurale, e cioè esclusivamente “nell’ambito dei servizi, presidi e strutture dell’unità sanitaria locale, sulla base di norme regionali”, limitandola, fuori di essa, soltanto a “consulti e consulenze non continuativi”, autorizzati “sulla base di norme regionali” (art. 35, secondo comma, lettere c e d del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761).

Restava confermata per i medici con rapporto di servizio a “tempo definito” la facoltà di svolgere -purché in orari compatibili e non in contrasto con gli interessi ed i fini istituzionali dell’unità sanitaria- libera attività professionale extramuraria, cioè al di fuori dell’unità sanitaria locale, anche “in regime convenzionale”, in conformità alle direttive degli accordi nazionali (art. 35, comma 5, lett. c e d).

L’evoluzione legislativa del sistema sanitario pubblico compiuta fino a quel momento indicava dunque una precisa distinzione in due tipi del rapporto di servizio dei medici, sulla base di una diversità di impegni, modalità ed orario di lavoro, nonché in relazione alla peculiare disciplina della libera professione intramuraria.

5.1.           In questo quadro normativo, si è inserito in modo innovativo l’art. 4, comma 7, della legge 30 dicembre 1991, n. 412, con il quale il legislatore, secondo questa Corte, ha inteso sancire “con rigore il principio di unicità del rapporto di lavoro con il Servizio sanitario nazionale, avendolo ritenuto particolarmente valido al fine di soddisfare l’esigenza, costituzionalmente protetta, di restituire massima efficienza ed operatività alla rete sanitaria pubblica”(sentenza n. 457 del 1993).

Con questa disciplina il legislatore vietava ai medici a “tempo definito” prestazioni di lavoro in regime convenzionale o presso strutture convenzionate, ma in compenso veniva a liberalizzare del tutto l’esercizio dell’attività professionale sia extra che intramuraria e ad “incentivare la scelta per il rapporto di lavoro dipendente, assicurando in tal caso, a semplice domanda, il passaggio dal <<tempo definito>> al <<tempo pieno>>, anche in soprannumero” (sentenza n. 457 del 1993), con conseguente incremento di retribuzione. La liberalizzazione dell’esercizio della attività professionale in regime esclusivamente privatistico per tutto il personale sanitario comportava, d’altra parte, che anche i medici a “tempo pieno” potessero svolgere attività extramuraria, senza la precedente limitazione ai soli consulti e consulenze non continuativi.

 

5.2.           La nuova disciplina delle incompatibilità mediche e dell’attività libero-professionale, disposta dalla citata legge n. 412, si conformava, per certi aspetti, alla logica della aziendalizzazione del Servizio sanitario e della “privatizzazione” del rapporto di lavoro del personale dipendente accolta dagli artt. 1 e 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421. Logica che si evidenziava più chiaramente con i decreti delegati n. 502 del 1992 (come modificato dal d.lgs. n. 517 del 1993) e n. 29 del 1993, i quali fissavano il principio dell’unicità del ruolo dirigenziale del personale sanitario in un quadro di progressiva aziendalizzazione delle unità sanitarie locali e degli ospedali.

Si veniva così a determinare una situazione in cui soggetti -pubblici e privati- che erogavano prestazioni per conto del Servizio sanitario nazionale, potevano essere scelti liberamente dal cittadino e venivano retribuiti in base alle prestazioni rese. In questo modo si veniva a ribadire il principio di concorrenzialità tra strutture sanitarie pubbliche e strutture sanitarie private, alla cui luce però rischiava di apparire contraddittoria la facoltà, riconosciuta al sanitario dipendente pubblico, di esercitare l’attività professionale anche all’esterno della struttura di appartenenza. Tanto più, se si considera che il dirigente medico, in questo nuovo modello organizzativo, appariva in grado di contribuire efficacemente a determinare sia le scelte strategiche ed operative dell’azienda, attraverso la partecipazione al Consiglio dei sanitari, sia quelle specifiche del dipartimento o del servizio, cui era preposto.

 

Esistevano quindi le premesse per il profilarsi di una situazione di conflitto di interessi, qualora il medico svolgesse libera attività professionale extramuraria. E proprio per evitare questa situazione, il legislatore, nella sua discrezionalità, da un lato, ha adottato misure per estendere il divieto di svolgere attività extramuraria anche riguardo a istituzioni e strutture private, delle quali l’unità sanitaria locale si avvaleva per prestazioni specialistiche, di diagnostica strumentale e di laboratorio ed ospedaliere (art. 8, commi 5 e 9 del d.lgs. n. 502 del 1992).

Dall’altro lato, ha adottato misure per incentivare l’attività professionale intramuraria, che questa Corte aveva già considerato elemento qualificante della riforma sanitaria, in quanto, tra l’altro, permette che “le aziende ospedaliere, dotate di piena autonomia finanziaria, possano effettivamente beneficiare di nuove entrate” (sentenza n. 355 del 1993).

In effetti la libera professione intramuraria, che si è sempre più venuta caratterizzando come tertium genus per la compresenza, accanto agli elementi propri del rapporto d’opera professionale, di altri propri del rapporto di lavoro subordinato -quali, ad esempio, il trattamento fiscale, la fissazione delle tariffe e la determinazione del riparto dei compensi da parte dell’Amministrazione- può apparire uno strumento utile per il conseguimento degli scopi assegnati alle strutture sanitarie pubbliche.

In questo ordine di idee si colloca la norma censurata, che prevedendo una riduzione dell’indennità per i medici a “tempo pieno” che svolgono attività professionale extramuraria, si inserisce nel prospettato disegno legislativo diretto a disincentivare, anche attraverso la dichiarata incompatibilità tra i due tipi di attività professionale (art. 1, comma 5, della legge n. 662 del 1996), la scelta per la libera professione extramuraria e diretto invece a funzionalizzare l’attività intramuraria rispetto agli obiettivi delle strutture sanitarie pubbliche, prevedendo forme di conversione dell’interesse esclusivo del singolo medico all’espletamento della professione in interesse concorrente dell’azienda ospedaliera, che potrebbe accrescere la propria capacità di offerta anche “attraverso il ricorso all’attività libero-professionale intramuraria” (art. 3, comma 12, lett. a del d.lgs. n. 124 del 1998). In questo modo tale attività appare in grado non solo di assicurare al servizio pubblico sanitario maggiori entrate, ma di realizzare anche, in conseguenza dell’innovazione del sistema di remunerazione delle prestazioni (art. 4, comma 7-ter, del d.lgs. n. 502 del 1992, introdotto dall’art. 6 della legge n. 724 del 1994), economie di gestione.

 

6.  Nel quadro di una evoluzione legislativa diretta a conferire maggiore efficienza, anche attraverso innovazioni del rapporto di lavoro dei dipendenti, all’organizzazione della sanità pubblica così da renderla concorrenziale con quella privata, non solo non appare irragionevole la previsione di limiti all’esercizio dell’attività libero-professionale da parte dei medici del Servizio sanitario nazionale (ordinanze n. 450 e n. 214 del 1994), ma si giustifica anche una diversa incidenza delle componenti retributive delle varie forme nelle quali tale attività si esplica, in proporzione alla differente attitudine a realizzare gli obiettivi fissati dalla legge.

 

Né, in particolare, viola gli artt. 3 e 36 la riduzione dell’indennità di tempo pieno, disposta dalla norma censurata, in quanto tale misura, mentre appare coerente con le finalità legislative di incentivazione dell’attività intramuraria non sembra incongrua sul piano applicativo, poiché incide sulla indennità di tempo pieno, la quale, come è noto, ha anche la funzione di compensare i mancati proventi derivanti dallo svolgimento dell’attività professionale extramuraria.

D’altronde, la riduzione dell’indennità è stata disposta con decorrenza differita nel tempo, nell’ambito di precise modalità di opzione a favore dell’uno o dell’altro regime di lavoro, cosicché la situazione in cui viene a trovarsi il medico a “tempo pieno” che espleta anche attività extramuraria è del tutto peculiare, costituendo la conseguenza di una sua libera scelta; il che rappresenta un ulteriore profilo di non irragionevolezza della disposizione (sentenza n. 457 del 1993).

D’altra parte, l’operatività delle molteplici disposizioni dirette, sulla base di diversi modelli organizzativi, a garantire -anche attraverso la previsione di specifici obblighi e di correlative responsabilità gravanti sui direttori generali delle aziende sanitarie- ai medici dipendenti dal Servizio sanitario nazionale la concreta possibilità di esercitare la libera professione intramuraria non può essere vanificata da difficoltà attuative generalmente riconducibili ad inadempimenti delle aziende sanitarie locali.

7.  Una volta accertato che la disposizione censurata non può ritenersi irragionevole e che anzi essa è ispirata dall’intento di garantire l’efficienza dell’organizzazione sanitaria pubblica, va esclusa anche la violazione dell’art. 4 della Costituzione. Innanzi tutto va considerato che questa disposizione concerne precipuamente l’accesso al mercato del lavoro (tra le più recenti, sentenza n. 293 del 1997). In secondo luogo, va rilevato che la denunciata -e comunque indiretta- limitazione all’esercizio della libera professione, peraltro frutto di una precisa scelta del medico, viene posta quale forma di tutela di altri valori, pure costituzionalmente garantiti, a seguito di un bilanciamento non irragionevole tra interessi contrapposti (sentenza n. 457 del 1993). In ogni caso va rilevato che dal riconoscimento dell’importanza costituzionale del lavoro, non deriva l’impossibilità di prevedere condizioni e limiti per l’esercizio del relativo diritto (sentenza n. 103 del 1977), anche nelle forme dell’incentivazione di taluni tipi di rapporto, purché essi siano preordinati alla tutela di altri interessi e di altre esigenze sociali parimenti fatti oggetto, come nel caso in esame, di protezione costituzionale.

 

 

 

P.Q.M.

 

 

LA CORTE COSTITUZIONALE  riuniti i giudizi, dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 3, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), sollevata in riferimento agli artt. 3, 4 e 36 della Costituzione dal Tribunale amministrativo regionale per la Puglia, sezione staccata di Lecce, e dal Tribunale amministrativo regionale per l’Emilia-Romagna, prima sezione di Bologna, con le ordinanze indicate in epigrafe.

 

 

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 luglio 1999.

 

Renato GRANATA, Presidente

Piero Alberto CAPOTOSTI, Redattore

 

Depositata in cancelleria il 20 luglio 1999.